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La prima volta...

Che vi state capiti? La prima volta che mi sono seduta su un'auto dalla parte del guidatore e mi sono resa diretta responsabile del movimento della medesima, intendo.

Come avrete notato dai due aggiornamenti in copertina apparsi verso la fine di settembre 2006, sono andata a scuola guida. Ebbene sì, ho trentasei anni e mi sono decisa solo adesso. Per un valore sufficientemente piccolo di mi sono decisa.

È successo che, dal compimento del diciottesimo anno in poi, la sottoscritta non abbia mai avuto assieme i tre requisiti fondamentali per poter prendere la patente: tempo, soldi, e voglia. È successo che per diciotto anni sono sempre stata la zavorra designata di amici parenti colleghi ed è capitato di abitare in una città i cui servizi pubblici si incastrano abbastanza agevolmente con le mie necessità di movimento.

È successo che, purtroppo, in questo periodo non ho nessuno dei tre ma se ne è aggiunto uno che non posso ignorare: mi tocca. E così faccio buon viso a cattivo gioco, mi convinco che in fondo è una faticaccia ma serve, eccetera eccetera e mi iscrivo.

Si comincia con teoria, i quiz di allenamento, vero falso vero, falso falso falso, falso vero falso, oddio ho fatto quattro errori, ah che culo avevo usato il correttore sbagliato, oddio con quello giusto ne ho fatti sei.

Evabbè.

Ma a che serve la teoria senza la pratica? Alla fine è tempo di mettere le famose terga su un'auto e provare.

E proviamo.

Mi presento dunque per la prima prova pratica. Scenario suppongo tipico: È la prima volta che guidi? Sissì. OK.

Vengo portata nel luogo perfetto per gli utonti da volante: un parcheggio grande e semideserto lì vicino. Occupo il posto, aggiusto specchietti, metto cintura, mezzo giro di chiavetta per accendere l'impianto elettrico.

Poi la spiegazione iniziale: a frizione abbassata c'è prendere confidenza con le marce, il quadro, le frecce, eccetera.

Togli il freno a mano! Tolgo il freno a mano. Faccio una figura sì migliore di questa, nel senso che non tento coscientemente di svitarlo, ma mi dimentico che va tirato prima verso l'alto e poi messo verso il basso. Immaginate la scena.

Dopo essere stata resa edotta del fatto che il freno non devo tentare di estirparlo dalla sua sede ma semplicemente disattivarlo, giunge il momento in cui l'auto deve inevitabilmente muoversi, preferibilmente dritta e con moto uniforme, preferibilmente nella direzione decisa precedentemente, e che a farglielo fare devo essere io. Senza dover scendere e spingere, intendo.

La mia prima, brillante partenza si risolve in:

OK, alzo la frizione fino a metà corsa... comincio a dare gas... aspetta, dov'è il gas? Aiuto, ho perso la frizione... ops, si è spenta!

E la seconda. E la terza. E la quarta e la quinta e la sesta e la settima. Dopo circa dodici metri e otto shutdown del motore comincio a intuire che mettersi gli anfibi non è stata questa grande idea. Un po' come uno che deve imparare a nuotare mettesse i pesi di ghisa alle gambe, ecco. Specie con i freni: non riesco a dosare la corsa e finisco sempre a dare un pestone, con l'ovvio effetto-shaker che ne consegue. Dopo essermi trovata lo stomaco a livello dei seni paranasali decido che appena esco da lì mi vado a comprare un paio di scarpe da ginnastica.

A scendere e spingere probabilmente avrei ottenuto un risultato migliore.

Evabbè, sono qui per imparare: tanto vista la mia inesistente esperienza e che da un punto di osservazione esterno sembra che pesti sui pedali dopo aver tirato un dado per decidere quale, non mi farà uscire in strada adesso.

Appena finito di pensarlo, sento la frase: Adesso andiamo in strada.

Momento di panico. Alla mia mente si presentano le tre seguenti opzioni da seguire:

  1. sganciare la cintura, catapultarmi fuori dal finestrino, arrampicarmi sull'albero più vicino e non venirne giù neanche se mi pigliano a sassate;
  2. appoggiare la fronte sul volante e piangere;
  3. andare in strada.

Alla fine decido di scegliere quella che non va troppo a detrimento della mia già scarsa dignità, ovvero la 3.

Per fortuna lo scopo mi giunge chiaro subito dopo: raggiungere dal parcheggio la zona industriale, laddove le strade sono abbastanza utonto-friendly, ovvero larghe e semideserte. Ma per arrivarci ci sono i seguenti, trascurabili ostacoli:

  1. una delle rotatorie più trafficate di Bologna;
  2. un semaforo che sta verde dieci secondi dieci e rosso settantacinque (lo so, li ho contati, è quello sotto a casa mia);
  3. un altro semaforo in discesa;
  4. una rotonda meno trafficata ma senza alcun senso secondo la geometria euclidea e proprio dopo un sottopasso che anche in bici devo farlo alzandomi sul sellino quindi immaginate la pendenza;
  5. altri due incroci da panico.

Vabbè, dopo aver raggiunto la fantasmagorica velocità dei 35 chilometri all'ora arrivo alla zona industriale lievemente agitata. L'istruttore mi fa notare che devo tenere le mani salde sul volante, non tentare di lasciare le impronte delle dita nel rivestimento del medesimo. Mi strombazzano dietro anche poco, almeno in questo sono abbastanza fortunata - conto molto sul fatto che il cartello scuola guida attaccato dietro sia un ottimo repellente per qualsiasi essere senziente a due e quattro ruote.

E dopo? Si torna indietro! Stesso percorso, ovvio, ma almeno schivo la rotonda 1 e la 2 la prendo dall'altro senso dove è più facile imbroccare la strada che mi serve (l'avevo detto che non aveva senso secondo la geometria euclidea).

Accosto, fermo, spengo, tiro frenoamano e... ah-ah. No, non esco. Non subito. L'unica cosa che sapevo già: prima guardare chi arriva, poi aprire lo sportello. Sono una biciclettara, e se avessi avuto un euro per tutte le sportellate che ho rischiato di prendermi addosso ci pagavo l'iscrizione e le lezioni. Due volte.

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